giovedì 31 maggio 2018

Deadpool 2 (In pillole #14)

Ci sono un mercenario, un cyborg, e un bambino lanciafiamme...


Deadpool si sta godendo la vita, diviso tra il lavoro e la fidanzata Vanessa. Un evento tanto tragico quanto inaspettato lo porta sulla strada di un giovane mutante molto potente che, in preda all'ira, sta seminando il panico nell'ospedale in cui è rinchiuso. L'arrivo di Deadpool non contribuisce a migliorare la situazione, ma decide di salvare il ragazzo, costi quel che costi. A complicare le cose arriva Cable, un misterioso guerriero bionico venuto dal futuro con l'obiettivo preciso di uccidere il ragazzo.

Tuttavia, le varie scene si susseguono come una serie di collage, piuttosto che come un insieme unitario, in una continua, schizofrenica alternanza di gag e momenti riflessivi, persino mistici, che stonano però con il tono caciarone del resto del film. Se nel primo film il bilanciamento era garantito dagli archetipi della origin story, che garantivano una certa coesione di insieme, qui il filo narrativo risulta invece troppo fine per far funzionare appieno il tutto. La storia del ragazzino mutante offre degli spunti interessanti, ma mostra la corda quando si tratta di diventare il trait d'union di una serie di avvenimenti e personaggi quanto mai eterogenei.

Il film si regge come sempre sulle spalle di Ryan Reynolds, semplicemente perfetto nella parte del protagonista, cui riesce a trasmettere un difficilissimo mix di cialtroneria e gravitas. Al suo fianco troviamo un Josh Brolin che conferma il suo stato di grazia supereroistico: dopo lo splendido Thanos di Infinity Wars, Brolin interpreta un Cable temibile e granitico, perfetto contraltare alla contagiosa esuberanza di Deadpool, regalandoci una coppia che promette faville per i futuri sequel.

Deadpool 2 è come una vecchia barzelletta che, per quanto già sentita altre volte, non smette mai di far ridere. Il merito del film è che, a tratti, riesce anche a far riflettere; il demerito è che al secondo capitolo era forse lecito aspettarsi qualcosa di più che nuove gag, per quanto molto, molto riuscite (su tutte, la prima missione della X-Force).

*** 1/2

Pier

mercoledì 16 maggio 2018

L’isola dei cani

Una favola per i nostri tempi



Giappone, 2037. A causa di un'influenza canina, i cani continuano a morire. Con il pretesto di voler salvaguardare la salute pubblica, il sindaco di Megasaki City, Kobayashi, esilia tutti i cani in una isola-discarica chiamata trash island. Il figilio adottivo del sindaco, Atari, decide però di partire per l'isola per ritrovare il suo amato cane da guardia, Spots. Ad aiutarlo troverà un improbabile gruppo di ex cani domestici, ormai rassegnatisi al randagismo ma non per questo disposti ad abbandonare il ragazzino.

A livello di trama, Wes Anderson ci ha abituato a un cinema che racconta i problemi normali di persone straordinarie (o l'opposto): un cinema fatto di personaggi, ma anche delle trappole che la vita tende loro, con una particolare attenzione per come le convenzioni sociali spesso si trasformino in una gabbia più o meno dorata. Anche in Fantastic Mr Fox, la sua prima avventura nella terra dell'animazione in stop motion, Anderson aveva mantenuto queste sue caratteristiche, scegliendo una storia di Dahl che gli permettesse di raccontare i problemi di una famiglia e una comunità disfunzionali. A livello musicale, Anderson ci aveva abituato a colonne sonore ricercate, fatte di musiche pre-esistenti scelte con certosina attenzione per sottolineare

Con L'Isola dei cani, Anderson cambia radicalmente registro, senza però perdere il tocco che lo rende uno dei registi più amati e originali del panorama cinematografico contemporaneo. Fin dalle prime battute, L'isola dei cani si presenta infatti come una favola moderna, raccontata con musiche originali evocative, quasi tribali (ottimamente composte da Alexandre Desplat) che proiettano fin da subito il film in una dimensione irreale e atemporale. Anderson ambienta la storia in un Giappone stereotipato e fuori dal tempo, sfondo ideale per una favola, ma lo infarcisce di dettagli autentici, vivi e vibranti, che fanno sì che la favola non resti una piatta allegoria ma si faccia storia. L'isola dove vengono esiliati i cani è infatti un capolavoro di design, un paesaggio post apocalittico degno di Mad Max, così come il quartier generale del malvagio Kobayashi, ispirato dichiaratamente all'estetica e alla retorica nazista ma al tempo stesso fedele a quelle nipponiche.

Nonostante questi elementi "fantastici", il film rimane sempre profondamente reale, commuovendo e appassionando lo spettatore. L'elemento l'elemento didascalico rimane sullo sfondo, visibile ma mai sbattuto in faccia, e si faccia quindi strada lentamente nella mente dello spettatore, in modo sottile ma non per questo meno efficace.
Il racconto del rapporto tra un ragazzo e il suo cane diventa un pretesto per parlare del rapporto tra uomo e cane in generale, che a sua volta diventa un pretesto per raccontare cosa succede quando si rompe il patto sociale e si comincia a classificare gli esseri viventi sulla base della razza anziché della loro capacità di sentimento e raziocinio. Una favola complessa, dunque, con molteplici livelli di lettura, che parla del passato ma guardando al presente sia canino (i campi di concentramento per cani giapponesi) che umano.

In questi scenari quasi teatrali (e spesso ripresi come tali da Anderson, che mai come questa volta fa uso di lunghe carrellate per raccontare l'odissea dei protagonisti) si muovono dei personaggi tipicamente andersoniani, per quanto in forma animale: gli splendidi cani protagonisti sono nevrotici, con un passato complesso fatto di rifiuto e abbandono, e al tempo stesso sono generosi, quasi folli nella loro bontà, ed estremamente divertenti nelle loro nevrosi e fissazioni. La loro costruzione certosina, sia a livello di personalità che di aspetto, ci rivela la vera cifra tematica del cinema di Wes Anderson: non la simmetria, suo cavallo di battaglia visivo, ma l'amore per i suoi personaggi, qui addirittura esplicitato nel titolo del film (Isle of dogs, il titolo originale, si legge in modo identico alla frase "I love dogs"). L'arte cinematografica di Wes Anderson risiede nella sua capacità unica di costruire personaggi indimenticabili e vicini al cuore dello spettatore, una capacità che gli viene riconosciuta fin dagli esordi (nientemeno che da Martin Scorsese) e che il regista texano ha via via affinato film dopo film, raccontando storie all'apparenza semplici, ma sempre in grado di parlare al cuore dello spettatore.

Chi giudica il film di Wes Anderson fermandosi alla bellezza delle immagini - anche qui stordenti nella loro perfezione - non coglie appieno la grandezza del suo cinema, che è prima di tutto un cinema fatto di emozioni, che nasce nel teatro (da cui deriva il suo gusto per la messa in scena) ma lo permea di quel realismo di cui solo la macchina da presa è capace. Persino in una favola con dei cani come protagonisti, Anderson riesce a emozionare, realizzando uno dei suoi film più dolci eppur più profondi, e trasportandoci in un mondo in cui i combattimenti si risolvono in una nuvola di zanne e pelo e facendocelo accettare come vivo e vero: un mondo che parla di noi, come spettatori e come uomini.
Lasciate che Wes Anderson vi prenda per mano (possibilmente in lingua originale, visto il cast vocale): non ve ne pentirete.

**** 1/2

Pier