giovedì 22 febbraio 2018

La forma dell'acqua - The shape of water

C'era una volta...



Baltimora, anni della Guerra Fredda. Elisa è una donna muta che lavora come addetta alle pulizie in un laboratorio scientifico dove si cercano di sviluppare nuove armi . Un giorno nel laboratorio viene portata a scopo di studio una creatura anfibia di forma umanoide. Laddove tutti vedono la creatura come una cavia priva di sentimenti che potrebbe essere sfruttata a scopo militare, Elisa scopre che è dotata di grande sensibilità e intelligenza e, lentamente, se ne innamora.

Dopo una parentesi molto riuscita nei film d'azione con Pacific Rim e una non troppo felice nell'horror con Crimson Peak, Del Toro torna al "suo" cinema per raccontarci una fiaba moderna. Come tutte le fiabe, la storia di Elisa e della creatura acquatica ha un carattere universale, e parla di assoluti: la natura di Bene e Male (il maiuscolo è d'obbligo), il concetto di diversità, la solidarietà tra gli ultimi, l'importanza del sogno e della fantasia. "Chi è il vero mostro a Notre Dame?", chiedeva Clopin nella meravigliosa intro musicale che apriva il (troppo sottovalutato) disneyano Gobbo di Notre Dame: Del Toro risponde fin dalle battute iniziali, senza paura di creare un film "manicheo",  in cui non esistono toni di grigio e buoni e cattivi sono perfettamente distinti come nel cinema hollywoodiano delle origini. Nulla di originale, dunque, eppure Del Toro riesce a prendere questi topoi narrativi e a trasformarli in qualcosa di originale e unico, che porta la sua impronta indelebile in ogni immagine, ogni dialogo, ogni scelta.

Ciò che nella fiaba è stereotipato e archetipizzato diviene qui realistico, sfaccettato, perennemente in equilibrio tra realtà e fantasia così come la storia si muove a metà tra terra e acqua. L'amore tra Elisa e la creatura viene raccontato con una sensualità sconosciuta al genere fantastico, senza però perdere di vista il romanticismo. Il film è una commistione tra Storia e fiaba, con la Guerra Fredda che fa da sfondo alla storia d'amore proibita di Elisa, ricreando quella fenomenale sovrapposizione tra reale e fantastico che caratterizza i film più riusciti di Del Toro come Il labirinto del fauno e La spina del diavolo. Il confine si fa sempre più labile man mano che il film procede, in un crescendo di poesia che culmina nel meraviglioso e ambiguo finale, che costringe a chiederci se venga prima la storia o il mito.

Muovendosi sul sottile confine tra realtà e fantasia, Del Toro finisce per fare anche una riflessione metatestuale sulla natura del cinema e della fiaba, sulla loro capacità di fornire un momento di evasione dalla realtà e al tempo stesso parlare delle questioni fondamentali della natura umana, in un escapismo che, per dirlo con le parole di J.R.R. Tolkien, non è da intendersi come la fuga del disertore ma come la liberazione di un prigioniero. E i personaggi di Del Toro sono prigionieri, prigionieri di una società che non offre loro alcun posto, alcuna accettazione, che li marginalizza e li colpevolizza per la loro diversità; una società perfettamente ritratta nel personaggio di Michael Shannon, formidabile villain di altri tempi in preda a una crescente corruzione morale e persino fisica, che domina la scena con la sua mostruosa normalità, la sua banale malvagità. Accanto a lui si muove un cast di grandi attori poco noti al grande pubblico, dalla protagonista Sally Hawkins a Octavia Spencer, passando per lo splendido Richard Jenkins, cui Del Toro offre dei ruoli che permettono loro di brillare come forse mai avevano fatto prima.

E proprio il cinema delle origini, con la sua aura di magia e mistero , è il punto di riferimento visivo e sonoro di Del Toro, che omaggia apertamente i classici hollywoodiani di vari generi, dal cinema di mostri ai comici del muto, passando per i musical con Fred Astaire. L'omaggio non è però fine a se stesso, ma concorre a creare quell'atmosfera onirica che pervade il film, e costituisce la base da cui Del Toro si muove per costruire le scene più innovative e originali del film, come quella che campeggia sui manifesti pubblicitari. A questo partecipa pure la colonna sonora, che alterna le musiche d'epoca alle dolcezza delle composizioni originali di Alexandre Desplat.
Del Toro amalgama ogni elemento alla perfezione e tutto, dall'incredibile trucco della creatura alla costruzione dei set, mostra il suo inconfondibile tocco e rappresenta un tassello della sua visione.

Se pensate che il cinema debba ritrarre l'umanità nelle sue varie sfaccettature e scale di grigio, probabilmente questo film vi lascerà indifferenti. Se, tuttavia, pensate che il cinema sia l'arte di parlare del reale sotto un manto di magia, poesia e sogno, allora non potrete non amare La forma dell'acqua.

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Pier

lunedì 19 febbraio 2018

Chiamami col tuo nome

Molto rumore per nulla



Nel 1983, Elio Perlman, un giovane diciassettenne italoamericano, trascorre un'estate oziosa nella campagna intorno a Crema insieme ai suoi genitori. A loro si unisce Oliver, uno studente universitario che lavora con il padre di Elio alla sua tesi di dottorato. Tra Elio e Oliver si instaura un rapporto che cambierà la vita di entrambi.

Cosa è un regista se abdica alla sua visione? È ciò che viene da chiedersi vedendo Chiamami col tuo nome, un film in cui Luca Guadagnino rinuncia a ogni pretesa di autorialità e originalità girando un film che sembra un condensato di sguardi altrui. Se a Sorrentino si rimprovera spesso (e spesso a torto) di “voler fare Fellini”, cosa dire allora di Guadagnino, che è talmente schiacciato dai suoi modelli di riferimento da non riuscire mai a discostarsene se non per brevi, meravigliosi attimi di respiro autonomo: dall'estetismo di sapore classico di Visconti alla gioventù sovversiva di Bertolucci, fino al fitto sottobosco della vita di provincia di Risi, non c'è modello che Guadagnino non citi e riutilizzi in modo ossequioso e quasi servile. Il risultato è un film ben girato ma anonimo, che potrebbe essere di Guadagnino come di qualunque altro regista, in cui persino le scene bucoliche sanno di già visto (Le Meraviglie di Alice Rohrwacher era ben più ispirato, in tal senso) e nessuna immagine resta stampata nella memoria.

Tuttavia, sarebbe ingeneroso non riconoscere il grande lavoro fatto da Guadagnino per rendere filmabile e credibile la sceneggiatura ingessata, anzi, bitumata di James Ivory: una sceneggiatura che mette in bocca a degli adolescenti degli anni Ottanta dei dialoghi che sembrerebbero troppo forbiti in bocca alla nobiltà vittoriana di cui di solito Ivory tratta nei suoi tormenti filmici; una sceneggiatura che tormenta lo spettatore con momenti lirici che risultano solo noiosi, con un ritmo fiacco ed esasperante; una sceneggiatura, insomma, arrogante e tronfia nel suo essere totalmente disconnessa dalla realtà, e che infatti sta ricevendo il plauso di quella critica terrazzesca e salottiera che la realtà l'ha persa di vista da almeno tre lustri. L'emblema di questa sceneggiatura è il monologo finale del padre di Elio, che Ivory indubbiamente vedeva come profondo ma risulta essere invece una trista morale della storia degna di un libro di fiabe di livello scadente, intriso di retorica e talmente incredibile da divenire ridicola, e che viene salvato solo dal fatto di essere affidato a un interprete straordinario come Michael Stuhlbarg.

Guadagnino si dibatte in questa sceneggiatura come un uomo in fiume prigioniero di un'armatura elegante ma troppo pesante e, pur con fatica, riesce a trascinarsi a riva grazie a un paio di felici intuizioni: la prima, depotenziare tutte le scene eccessivamente retoriche con un uso semplice della macchina da presa, evitando di sovraccaricare gli orpelli ivoriani con ulteriori artifizi filmici; la seconda, affidarsi alla straordinaria bravura dei suoi attori, Armie Hammer e Timothée Chalamet, tanto naturali e spontanei da riuscire a rendere (quasi) credibili le odi pastorali che Ivory ha scritto spacciandole per dialoghi. Non per nulla le scena più riuscite sono quelle di intimità tra i due, in cui i dialoghi sono rarefatti e quasi del tutto assenti, ed è il linguaggio dei corpi a parlare, comunicare e, perché no, commuovere. Esemplare in questo senso è l'ultima scena del film, forse l'unica in cui vediamo la creatività del regista emergere con prepotenza, quasi con liberazione: Guadagnino decide di lasciare la scena a Chalamet, che lo ripaga con una sequenza semplice ma di fortissimo impatto emotivo.

Chiamami con il tuo nome è un film onesto, diretto con perizia, con un'ottima colonna sonora e splendidamente interpretato, ma molto lontano dal capolavoro di cui si urla oltreoceano, dove ha probabilmente guadagnato attenzione grazie alla tematica e a una regia che negli USA passa per autoriale, ma che qui in Europa fatica a distinguersi da mille altre viste nei maggiori festival cinematografici. È, soprattutto, molto lontano dall'essere il miglior lavoro di Guadagnino: come potrebbe, quando di Guadagnino e della sua poetica c'è poco o nulla?

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Pier

martedì 13 febbraio 2018

The post

Bello senz'anima

 


1971, USA: Daniel Ellsberg, economista che lavora per un'agenzia al soldo del Pentagono, trafuga e diffonde delle copie di un rapporto segreto che dimostra come il governo USA sotto quattro presidenti diversi sapesse dell'impossibilità di vincere la guerra in Vietnam, e ciononostante non abbia ritirato le truppe. Il primo a divulgare i documenti è il New York Times, che però riceve un'ingiunzione della Corte Suprema che, sollecitata dal governo Nixon, impone il blocco della pubblicazione. A questo punto i documenti arrivano in mano ai giornalisti del Washington Post, mettendo l'editore, Katharine Graham, e il suo direttore, Ben Bradlee: pubblicare e rischiare a loro volta il blocco della pubblicazione e un possibile disastro finanziario, o non pubblicare e venire meno alla loro missione di divulgatori della verità.

Il tema della libertà di stampa è quantomai centrale di questi tempi, in cui tra bufale, attacchi frontali del potere costituito, e un oggettivo scadimento del livello qualitativo medio il giornalismo tradizionale arranca e fatica ad assolvere la sua funzione di pungolo dei governanti e servitore dei governati. Un film come The Post arriva quindi con perfetto tempismo. La vicenda narrata è quantomai bipartisan, dato che tocca presidenti di diversi schieramenti ed epoche, ed è raccontata con un ritmo serrato e una narrazione prevalentemente in interni, dove seguiamo le attività giornaliere di una redazione esemplare e il loro costante lavorio alla ricerca della verità. Al tema della libertà di stampa si aggiunge quello dell'emancipazione femminile, affrontato attraverso la figura di Katharine Graham: trovatasi quasi per caso a essere l'editore del Washington Post, Graham è circondata da uomini che le dicono cosa deve e non deve fare, cosa può e non può permettersi. La sua scelta, libera e consapevole, arriva quasi come un urlo liberatorio, una dichiarazione di intenti che rivela un carattere deciso sotto l'apparenza di donna mite e festaiola della protagonista.

Sia Katharine Graham che Ben Bradlee sono interpretati alla perfezione da due mostri sacri come Meryl Streep, ancora una volta meritatamente candidata all'Oscar, e Tom Hanks. Accanto a loro brillano dei comprimari d'eccezione, dal Bob Odenkirk di Breaking Bad e Better Call Saul al Bradley Whitford di The West Wing, che danno vita a una redazione e a un gruppo editoriale quantomai sfaccettato e, proprio per questo, vero e credibile.

Il film ha il merito di non scadere in eccessi di retorica, ma osa pochissimo e sembra sedersi sugli allori, crogiolarsi nella certezza di avere tutti gli elementi per poter realizzare un bel film. Spielberg si accontenta di mettere in scena anziché esplorare, scavare, indagare; di usare i suoi fenomenali attori per trasmettere i personaggi, senza preoccuparsi di esplorarli a fondo. Il risultato è un film godibile ma comunque superficiale che, cosa strana per un film di Spielberg, non riesce davvero a coinvolgere né a emozionare, come invece riescono a fare capolavori del genere "giornalistico" come Tutti gli uomini del Presidente o il più recente Il caso Spotlight. Ci si ritrova a tifare per i protagonisti quasi per inerzia, senza un reale coinvolgimento né interesse per le loro vicende, con la parziale eccezione del personaggio della Graham, ma piùper merito di Meryl Streep che di regia e sceneggiatura.

The Post risulta quindi un film solido, ben realizzato e interpretato magistralmente, ma superficiale; un compitino che racconta la sua storia con efficienza ma senza efficacia, e ha quindi un impatto di gran lunga inferiore a quello che avrebbe potuto avere. Non rimarrà di certo nella storia del cinema sul giornalismo, né resterà a lungo nella memoria dello spettatore.

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Pier