martedì 12 dicembre 2017

Suburbicon

Il volto oscuro dell'America


Stati Uniti, 1959. Gardner Lodge è un padre di famiglia che vive nella città modello Suburbicon insieme alla moglie Rose, paralizzata per via di un incidente, e al figlio Nicky. La città è abitata da soli bianchi, fino a quando accanto alla casa di Gardner si trasferisce una famiglia di colore, i Meyers. Il loro arrivo scatena la reazione veemente della comunità, che viene sconvolta anche da un altro evento: nottetempo due delinquenti si introducono nella villa dei Lodge e uccidono Rose con una dose eccessiva di cloroformio.

George Clooney torna alla regia rielaborando una vecchia sceneggiatura dei fratelli Coen, scritta appena dopo il loro fortunato (e troppo poco conosciuto qui da noi) film d'esordio, Blood Simple. Il tocco dei Coen è evidente in ogni dialogo e ogni situazione che vede protagonista la famiglia Lodge. Il film è pervaso da un'atmosfera trasognata, perennemente in bilico tra assurdo e dramma, tra risata e incubo domestico, conferendo al tutto quel tocco grottesco che ha reso celebre il cinema dei due fratelli. Questa sospensione della realtà è però solo parziale: se alcune delle vicende narrate sembrano assurde, infatti, le motivazioni che muovono i protagonisti sono terribilmente reali nella loro meschinità.

La realtà irrompe poi con violenza dall'unica finestra aggiunta da Clooney, la sottotrama dedicata alla famiglia di colore: se inizialmente le vicende dei Mayers sembrano disconnesse dalla vicenda principale, quasi fuoriposto, con il passare dei minuti ci si rende conto che la loro storia è il contraltare di quella dei Lodge, nonché quella che fornisce la cifra morale del film. La folla cerca il mostro nell'altro, nel diverso, quando in realtà il mostro ha una faccia ben più riconoscibile e domestica, e si annida tra coloro di cui ci fidavamo di più. Non è un caso che lo sguardo che accompagna il film sia quello del piccolo Nicky (un ottimo Noah Jupe), che da innocente diviene prima incredulo e poi terrorizzato dall'incredibile evoluzione degli eventi.

Clooney usa la cittadina di Suburbicon come una metafora dell'America odierna, incapace di vedere il male nel proprio giardino ma pronta a scagliarsi sul primo capro espiatorio disponibile. Pur peccando a volte di retorica, il messaggio arriva forte e chiaro ed è di sicuro impatto: il crescendo di violenza nelle due sottotrame procede perfettamente in parallelo, con la verità sulla morte di Rose che viene gradualmente a galla, tra scene esilaranti e terrificanti rivelazioni, e l'atteggiamento dei cittadini di Suburbicon verso i Meyers che passa dall'essere passivo aggressivo a un vero e proprio linciaggio. Violenza che chiama violenza, generando una sorta di anti-euforia collettiva in cui ognuno sembra ubriaco dal desiderio di sangue.

Il matrimonio tra le due sottotrame non avviene senza intoppi: mancano lo splendido rigore visivo di alcune opere di Clooney (Good Night, and Good Luck su tutte), e lo humor non è al livello dei migliori lavori dei Coen. Tuttavia, Suburbicon è un film ben riuscito, in cui le due storie crescono lentamente in parallelo fino a diventare un unico, inquietante affresco dell'intolleranza, che parla della storia passata dell'America ma dipinge anche un ritratto fin troppo tristamente fedele del suo presente.

*** 1/2

Pier

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