sabato 13 aprile 2024

C'è vita lontano da Roma

Buone notizie dal cinema italiano

Italia, anno 2024: in sala ci sono tre film italiani che stanno incassando bene e stanno anche avendo un ottimo riscontro anche dalla critica.


No, non è la trama di un film distopico, ma la realtà: in rigoroso ordine di uscita, Un mondo a parte, di Riccardo Milani (voto 7), Zamora (voto 9), esordio alla regia di Neri Marcoré, e Gloria! (voto 8) esordio alla regia dell'attrice e cantante Margherita Vicario, stanno riscuotendo successo sia tra il pubblico che tra gli addetti ai lavori. Al frequentatore delle sale e conoscitore del cinema italiano degli ultimi decenni salta subito all'occhio un dettaglio, un'anomalia quantistica: nessuno di questi tre film è ambientato a Roma.

Si è spesso discusso del romanocentrismo del cinema italiano, discorso scivoloso che spesso sfocia nel campanilismo se non in una vera e propria discriminazione territoriale. Proprio per questo, il discorso è stato spesso sterile, e si è concentrato su un sintomo anziché sul problema. Il sintomo era la presenza di tantissime maestranze romane, dai registi e gli autori ad attori e attrici, con conseguente prevalenza di una parlata locale e localizzata. Da qui, inutili strali contro gli eccessi di daje, famo, annamo, da una parte, e la difesa della storica centralità di Roma per il cinema italiano dall'altra. 

La serie di sketch "A piedi scarzi", di Emanuela Fanelli, parodizza il romanocentrismo del cinema italiano

Il problema, tuttavia, non erano le maestranze: se ambienti un film a Roma è normale, anzi, sacrosanto che le voci, i volti, e i temi riflettano l'ambientazione stessa. Il problema erano le idee di partenza, una certa ripetitività tematica che tutti riconoscevano, ma che nessuno, nemmeno i critici del romanocentrismo, attribuiva alla poca varianza nelle location. I luoghi, tuttavia, non sono meri sfondi, ambientazioni: sono anche l'ispirazione delle storie, o addirittura co-protagonisti delle stesse. Impossibile pensare a I soliti ignoti al di fuori del contesto romano, o a Chiedimi se sono felice senza lo sfondo milanese, o a È stata la mano di Dio senza Napoli. Il problema era, dunque, che a una ripetitività di location corrispondeva una ripetitività di temi, che però portava a sua volta a perpetuare la ripetitività di location (perché tutti siamo ispirati da ciò che ci vediamo e ci circonda), in un circolo vizioso che a volte produceva comunque grandi successi (C'è ancora domani su tutti) ma nella maggior parte dei casi portava all'ennesima versione della solita minestra.

"Fuggendo" da Roma, affrancandosi da una forma mentis dominante che portava a un omogenizzazione del dove, e dunque del "cosa", Milani, Marcoré, e Vicario sono riusciti a trovare voci e storie nuove, fresche, originali, e al tempo stesso sbugiardare il falso problema dell'origine geografica degli autori: Milani e Vicario sono, infatti, romani, e Marcoré (marchigiano) vive a Roma ormai da otto anni.


Un mondo a parte
inizia proprio come una fuga dalla capitale del protagonista, l'insegnante delle elementari interpretato da Antonio Albanese: una fuga alla ricerca di se stessi, di una vita più vera, di uno sguardo nuovo, che sembra un riflesso di quella operata da Riccardo Milani, che dopo un'intera carriera spesa all'ombra del Cupolone, in Abruzzo ha trovato una storia nuova eppure antica, che parla al passato ma anche al futuro: la storia di un paese a rischio di morte, ma che trova sempre la forza di sopravvivere, tra crisi emotive ed espedienti esilaranti. Un mondo a parte parla del nostro complesso rapporto con la natura e con i luoghi da cui veniamo - un tema ineludibile, fatto di felicità e sofferenza, di gente che parte e gente che resta, e che non troverà mai una facile soluzione. Il film ha un andamento sincopato, con alcuni episodi che sembrano fuori posto e distonici, ma nel complesso funziona e cattura grazie alla sua capacità di parlare all'attualità e alla simpatia dei protagonisti, sia giovani (tutti non attori dei luoghi dove è girato il film, intorno a Pescasseroli) che esperti, con Virginia Raffaele che strappa la maggior parte delle risate. 


Marcoré e Vicario fuggono più lontano, sia nello spazio che nel tempo. Il primo ci porta a Milano (e Vigevano) negli anni Sessanta, con una storia delicata e poetica che si muove tra il primo Pupi Avati ed Ermanno Olmi (gli echi de Il posto sono evidenti) e che racconta l'emancipazione emotiva e sentimentale di un ragazzo che diventa uomo e si apre al mondo, imparando - letteralmente e metaforicamente - a tuffarsi. La storia è divertente e commovente, molto ben scritta, e non scontata, nemmeno nel finale. Offre uno splendido sguardo sulla Milano (e sull'Italia) dell'epoca, tra capitani d'industria con la passione per il calcio e fantozziane partite scapoli-ammogliati, la paura di spostarsi nella grande città, un mostro lontano e quasi mitologico, e il sottobosco umano cantato da Gaber (cui coincidenza vuole che Riccardo Milani abbia dedicato un ottimo documentario) e Jannacci. 
Marcoré azzecca in pieno anche il casting, con un giusto mix tra facce fresche e volti noti della comicità milanese. Tra i primi spiccano il protagonista Alberto Paradossi, perfetto per il ruolo, Anna Ferraioli, splendida nel ruolo di sua sorella, e Marta Gastini, che interpreta uno degli interessi amorosi più interessanti e ben scritti visti al cinema negli ultimi anni. I secondi sfoggiano qualche "gloria di Internet" (due membri de Il terzo segreto di Satira, ambedue perfettamente in parte) e vecchi leoni capitanati da Marcoré stesso e da Ale, Franz, Giovanni (Storti) e Giacomo (Poretti) - quest'ultimo presente solo in un cameo che però vale da solo il prezzo del biglietto.


Vicario invece ci porta a Venezia, a inizio Ottocento, e ci racconta la storia dimenticata degli istituti musicali per giovani orfane, che venivano avviate alla musica e alla composizione, chiusi da Napoleone nel 1807. Anche Vicario racconta una storia di emancipazione e ribellione, un racconto fanta-storico con geniali anacronismi musicali alla Maria Antonietta, che però vengono calati realisticamente nella trama e nella tradizione musicale d'epoca: uno sforzo creativo notevole, che però lascia forse un po' di rammarico pensando a cosa avrebbe potuto essere se Vicario avesse sciolto del tutto le briglie della fantastoria, facendo la sua versione "musicale" del finale di Bastardi senza gloria. Il risultato è comunque splendido, grazie a un fatto storico poco noto ma ricco di spunti, una regia già molto solida e originale (il film era, meritatamente, in concorso all'ultima Berlinale), e soprattutto a personaggi che catturano lo spettatore. Anche Vicario, come Marcoré, sfrutta alla perfezione un mix di volti nuovi - tutte le ragazze, tra cui spiccano Carlotta Gamba, Maria Vittoria Dallasta, e Veronica Lucchesi de La rappresentante di lista, e vecchi leoni della comicità settentrionale, da Elio a Natalino Balasso, passando per un Paolo Rossi perfetto nel ruolo di un prete-compositore viscido e arrogante.

C'è vita, dunque, lontano da Roma: nuovi volti, nuove storie, nuove prospettive. Prospettive che possono aiutare a "rinfrescare il repertorio" anche una volta tornati a girare nella capitale: perché il problema non è il luogo, ma cercare di mantenere lo sguardo aperto verso l'orizzonte del nuovo.

Pier

lunedì 1 aprile 2024

American Fiction

Contro l'ipocrisia


Thelonious Ellison - soprannome: "Monk" - è uno scrittore nero apprezzato dalla critica ma di scarso successo commerciale. Irritato dalla tendenza dei colleghi di colore a scrivere libri stereotipicamente "black", scrive sotto pseudonimo un libro di quel genere, una storia di ghetto, gangster e disperazione. Contro ogni aspettativa, questo cumulo di cliché scritto per provocazione incontra l'entusiasmo delle case editrici e addirittura di Hollywood. Monk, in difficoltà finanziarie a causa della malattia della madre, si trova costretto a scegliere tra l'integrità e il cavalcare l'onda degli stereotipi, senza sapere dove potrebbe trascinarlo.

Sarebbe facile etichettare American Fiction, fresco vincitore dell'Oscar per la miglior sceneggiatura non originale, come un film contro gli eccessi del politicamente corretto. In superficie, il bersaglio della satira sembra effettivamente chiaro: una società e, nello specifico, un'élite editoriale che fanno sì che un autore di colore non riesca a vendere perché non "abbastanza nero", e che un romanzo dozzinale, scritto per pura provocazione, diventi un successo clamoroso perché "molto nero", e quindi da osannare.

In realtà American Fiction mette alla berlina altro, ovvero le radici puramente utilitaristiche della recente esplosione di inclusività nel mondo culturale statunitense. Le aziende non hanno abbracciato i valori "progressisti" (e i relativi eccessi) perché improvvisamente pervase dal sacro fuoco dell'uguaglianza: lo hanno fatto perché, banalmente, pensano che aumenti le vendite - direttamente, attirando una fetta di pubblico che fino a quel momento era rimasta esclusa dai prodotti da loro offerti; e indirettamente, segnalando la propria virtù al pubblico, e quindi acquisendo status e ulteriori vendite. Lo fanno anche per sentirsi "buoni", assolti, come dice l'agente di Monk in uno dei dialoghi centrali del film. 

American Fiction è, in sintesi, una satira dell'ipocrisia, del nascondersi dietro a delle facciate per nascondere la verità. Anche Monk ne cade preda, scegliendo di ergersi sull'altare dell'autorialità senza considerare che "sfruttare il sistema", come fa Sintara Golden, l'autrice che tanto disprezza, è una scelta attiva che le permette di vivere la vita che vorrebbe, anziché continuare a traccheggiare, atteggiandosi a vittima. 

Il tema centrale del film diviene però ancora più evidente una volta che si considera anche la vicenda personale di Monk e della sua famiglia, e non solo quella professionale. Monk non riesce a relazionarsi con il prossimo perché ha paura di essere se stesso. La sua maschera di cinismo e indifferenza lo protegge dal dolore, ma gli impedisce anche di avere dei rapporti autentici - sia famigliari che sentimentali. Anche suo fratello (un come sempre eccezionale Sterling K. Brown) e, in misura minore, sua sorella sono stati per anni intrappolati in maschere, ruoli che la società aveva scelto per loro, e stanno imparando cosa voglia dire vivere in modo più libero e autentico.

American Fiction è una splendida satira della coda di paglia che ancora attanaglia l'élite WASP negli Stati Uniti quando si parla di questioni razziali, ma anche una storia di relazioni, di non detti dolorosi, di maschere indossate nella convinzione di salvaguardare la coesione famigliare, ma che in realtà hanno creato abissi di silenzi - silenzi che allontanano, anziché avvicinare. 

È un film piccolo ma incredibilmente forte, a tratti esilarante, ma in grado di colpire al cuore anche grazie all'ottima prova del cast, capitanato da un Jeffrey Wright indecifrabile, capace di cambiare registro di continuo, alternando ironia, dolcezza, furia, sofferenza in una rapsodia emotiva degna di quelle che il grande jazzista da cui prende il suo personaggio prende il nome improvvisava al pianoforte. 

**** 1/2

Pier

domenica 10 marzo 2024

Oscar 2024 - I pronostici

Questa notte, come ogni anno, gli occhi del mondo cinematografico si sposteranno sul Dolby Theatre di Los Angeles per la cerimonia di premiazione della novantaduesima edizione degli Academy Awards. 
Il 2023 è stato un anno di eccellenza dal punto di vista cinematografico: moltissimi film - statunitensi e non - hanno ottenuto un largo consenso di critica, e alcuni (Barbie e Oppenheimer su tutti) hanno conquistato anche il pubblico. Se il trionfo (al botteghino e nella stagione dei premi) di Everything, Everywhere, All at Once aveva suggerito che un altro cinema di intrattenimento - creativo, autoriale, di genere - era possibile, quest'anno lo ha sonoramente confermato (e anche la prossima stagione inizia, in tal senso, sotto i migliori auspici). 

Ma chi sono, dunque, i favoriti? Senza ulteriore indugio passiamo ai pronostici, infallibili come sempre: correte in SNAI, e puntate sull'opposto di quanto scrivo. I film recensiti sono linkati ogni volta che vengono nominati.


Miglior montaggio
La grande favorita sembra Jennifer Lame per Oppenheimer, con Yorgos Mavropsaridis per Povere Creature! possibile sorpresa. Su Lame ricade anche la mia scelta personale
Pronostico: 
Jennifer Lame, Oppenheimer
Scelta personale: Jennifer Lame, Oppenheimer

Miglior fotografia
Sezione molto competitiva, con tutti i cinque nominati che potrebbero a buon diritto aggiudicarsi il premio. Rodrigo Prieto fa un ottimo lavoro con Killers of the Flower Moon, così come Edward Lachman per El Conde (felice che il film di Larrain sia riuscito a entrare, per quanto in sordina, nella competizione) e Matthew Libatique per Maestro. I due contendenti più accreditati sembrano però essere il "solito" Hoyte van Hoytema per Oppenheimer e Robbie Ryan per Povere Creature! . Sul primo ricade il mio pronostico, mentre la mia preferenza personale va alle atmosfere tra il gotico e Wes Anderson create dal secondo.
Pronostico: Hoyte van Hoytema, Oppenheimer
Scelta personale: Robbie Ryan, Povere creature!

Miglior film d'animazione
Altra sezione molto competitiva. Elemental è l'ennesima perla della Pixar, un film solo all'apparenza minore, capace di riprendersi da una partenza stentata al botteghino (complice anche una critica pigra e superficiale) per diventare un successo. Nimona, produzione Netflix, è un gioiellino che dovete assolutamente recuperare. I due contendenti principali sembrano però essere Hayao Miyazaki con il suo film più personale e innovativo, Il Ragazzo e l'Airone, e il secondo capitolo delle avventure dello Spider-Man di Miles Morales, un film che, così come il primo capitolo, ridefinisce le regole di cosa sia l'animazione. Scelta difficilissima, ma il mio pronostico ricade sul maestro giapponese, mentre la scelta personale premia il secondo capitolo dello Spider-Verse.
PronosticoIl ragazzo e l'airone
Scelta personale: Spider-Man - Across the Spider-Verse

Miglior attore non protagonista
La ragione dice Robert Downey Jr, che in Oppenheimer  ricorda a tutti di essere, prima ancora che Iron Man, un attore drammatico di livello eccelso, regalandoci uno dei villain cinematografici più interessanti degli ultimi anni. Su di lui ricade il mio pronostico. Il cuore, però, non può che dire Ryan Gosling, sia perché il suo Ken è uno dei personaggi più esilaranti della stagione, sia come risarcimento per aver quasi del tutto ignorato Barbie, sia perché il momento che più attendo della cerimonia sarà la sua esibizione quando canterà I'm just Ken, nominata per la miglior canzone.
Pronostico: Robert Downey Jr, Oppenheimer
Scelta personale: Ryan Gosling, Barbie


Miglior attrice non protagonista
Qui sembra esserci una favorita molto chiara, Da'Vine Joy Randolph per The Holdovers. Purtroppo non ho ancora avuto occasione di vedere il film, quindi la mia scelta personale ricade su America Ferrera per Barbie.
Pronostico: Da'Vine Joy Randolph, The Holdovers. 
Scelta personale: America Ferrera, Barbie

Miglior sceneggiatura originale
Qui i favoriti sono Justine Triet e Arthur Harari per Anatomia di una Caduta, la grande sorpresa di questa stagione dei premi. Non ho ancora visto il film se non una scena, ma è talmente clamorosa come scrittura che mi basta per dare loro anche la mia preferenza personale.
Pronostico: Justine Triet e Arthur Harari, Anatomia di una Caduta
Scelta personale: Justine Triet e Arthur Harari, Anatomia di una Caduta

Miglior sceneggiatura non originale
Sezione decisamente più competitiva di quella per la sceneggiatura originale. La favorita sembra essere Greta Gerwig (con Noah Baumbach) per Barbie, anche se non si può escludere la vittoria di Cord Jefferson per American Fiction. Su Gerwig ricade anche la mia scelta personale.
Pronostico: Greta Gerwig e Noah Baumbach, Barbie
Scelta personale: Greta Gerwig e Noah Baumbach, Barbie


Miglior attrice protagonista
La sezione in cui è pronto a consumarsi il grande scandalo, con la vittoria quasi certa di Lily Gladstone per Killers of the Flower Moon: ottima prova la sua, ma decisamente non indimenticabile. In patria è spinta dalla solita coda di paglia degli statunitensi nei confronti di popolazioni/etnie contro cui hanno compiuto crimini indicibili, e la cosa è resa ancora più evidente dal fatto che non ha vinto alcun premio tra quelli assegnate da giurie non USA (BAFTA e Golden Globes). Il premio, se esistesse giustizia, dovrebbe andare alla prova ipnotica e irripetibile di Emma Stone in Povere Creature!, o al massimo all'eccellente Carey Mullighan di Maestro- Sulla Stone ricade la mia scelta personale.
Pronostico: Lily Gladstone, Killers of the flower moon
Scelta personale: Emma Stone, Povere creature!

Miglior attore protagonista
By order of the Peaky Blinders, questo premio non può che andare a quell'attore fenomenale (e fonte inesauribile di meme) che è Cillian Murphy, che finalmente sta ottenendo il riconoscimento che si merita. Gli altri candidati possono fare a meno di presentarsi.
Pronostico: Cillian Murphy, Oppenheimer
Scelta personale: Cillian Murphy, Oppenheimer

Miglior regia
Questo è l'anno in cui, finalmente, Christopher Nolan otterrà una statuetta che avrebbe già meritato innumerevoli volte ma che, come tanti altri grandi prima di lui (Kubrick, cui spesso viene paragonato, l'esempio più preclaro), finora non ha mai ottenuto. Su di lui ricadono sia il mio pronostico che la mia scelta personale, considerando che Greta Gerwig, unica regia che mi aveva convinto quanto quella di Nolan, non è nemmeno stata nominata.
Pronostico: Christopher Nolan, Oppenheimer
Scelta personale: Christopher Nolan, Oppenheimer


Miglior film
Per il sottoscritto il discorso non dovrebbe nemmeno aprirsi: Oppenheimer è il miglior film dell'anno, l'apice della carriera di Nolan per capacità di unire ambizione narrativa, impronta autoriale, e appeal commerciale. Chi scrive sarebbe felice anche per un successo di Barbie, ma visto come l'Academy ha snobbato il film un trionfo nella categoria più importante appare improbabile. Fino alla vigilia Oppenheimer appariva favorito, ma sotto traccia si comincia a parlare di una possibile vittoria a sorpresa, che però sarebbe perfettamente in linea con il trend di premiare film che hanno un messaggio sociale: quella de La Zona di Interesse. Su di esso, dunque, ricade il mio pronostico.
Pronostico: La zona di interesse
Scelta personale: Oppenheimer

Che aspettate? Correte in sala scommesse!

Pier

mercoledì 28 febbraio 2024

Dune - Parte 2

Muad'dib colpisce ancora


Dopo essere scampati al tentativo di ucciderli da parte degli Harkonnen, Paul Atreides e sua madre Jessica vivono tra i Fremen, supportati dal leader di un loro clan, Stilgar. I Fremen però faticano ad accettarli, fino a quando non si diffonde la voce che Paul sia l'atteso Messia di Dune promesso dalle leggende, la Voce da un Altro Mondo. Paul dovrà scegliere se cavalcare l'ondata di fervore religioso o dare retta alle sue visioni, che predicono sventura, e a Chani, una guerriera Fremen per cui comincia a provare dei sentimenti, e che lo esorta a rimanere se stesso.

Quello dell'Eletto è un topos fondante della narrativa, cinematografica e non. È al centro di molte delle saghe più popolari, da Harry Potter a Guerre Stellari, passando per Matrix. Il pubblico è talmente abituato a vederla che, spesso, reagisce molto negativamente ai tentativi di sovvertirla. Anche Dune, il romanzo di Frank Herbert, racconta, la storia dell'ascesa di un eletto. Tuttavia, a differenza di ciò che credono molti, non lo fa per celebrarlo, ma per mettere in evidenza i pericoli ideologici, filosofici, e sociali del rendere un semplice uomo un Messia. Dune non è la storia di un salvatore esterno (né, tantomeno, di un white savior come hanno spesso sostenuto critici superficiali): è la storia di come si costruisce un mito inesistente, il racconto di una colonizzazione culturale al fine di perpetuare un piano di controllo e dominio - finché qualcosa, nel meccanismo, si inceppa.

Denis Villeneuve coglie alla perfezione le intenzioni di Herbert - intenzioni spesso travisate, come detto, ma evidenti a chi conosce anche i capitoli successivi della saga, in particolare Dune Messiah - e le traspone alla perfezione in questo secondo capitolo, facendo centro e riuscendo finalmente a catturare la complessità di quello che è stato definito per decenni un "romanzo infilmabile." Villeneuve, come già ampiamente dimostrato sia nel primo capitolo, sia in altri suoi lavori, non teme la complessità, anzi, sembra quasi bramarla, e tesse un arazzo complesso, intricato, che rende giustizia al materiale di partenza e non ha paura di raccontare un'ascesa oscura, la nascita di un eroe che è anche un antieroe, che per prendere il proprio posto nel mondo deve accettare il suo lato oscuro e il fatto che le sue azioni provocheranno milioni di morti. 

Salvatore o carnefice? Liberatore o colonizzatore? La risposta è ambigua, ma il fatto stesso che questa ambiguità sussista è una rivoluzione per il genere, quantomeno al cinema. La complessità morale di Paul, e l'inganno alla base della sua venuta messianica sono qui messe pienamente in luce, e questa scelta rende più interessanti, complessi, e sfaccettati tutti i personaggi - Paul in primis, ma anche Chani, vera bussola morale del film, e Lady Jessica. La musica di Hans Zimmer svolge un ruolo fondamentale, perché non tocca mai note di esaltazione e celebrazione, ma suggerisce un disastro incombente, un male nascosto nell'ombra, un'inquietudine che non viene mai del tutto sopita.


In generale, Villeneuve abbraccia la densità tematica del romanzo (oltre alla "sindrome del messia" si parla di colonialismo, fanatismo, ecologia, e tanto altro) e la fa sua, apportando cambiamenti a volte dolorosi, ma doverosi, - sia perché superflui ai fini narrativi, sia perché complessi da gestire perché avrebbero richiesto ulteriore minutaggio - omettendo spiegazioni non necessarie, e senza farsi problemi a rallentare il ritmo quando necessario, per poi accelerare di colpo quando l'azione diventa regina. Il regista (e il suo co-sceneggiatore, Jon Spaihts) fanno una cosa che sembra eccezionale ma è in realtà estremamente semplice: si fidano dell'intelligenza e, soprattutto, dell'immaginazione dello spettatore nel connettere i puntini, nel dare senso a quello che si vede ma non viene sviscerato in ogni dettaglio. Così facendo, dando vita a un mondo che lascia una sensazione di profondità, di infinite storie che potrebbero essere raccontate, di personaggi cui potrebbero essere dedicati interi film, e che incontriamo come passeggeri nella notte mentre seguiamo le avventure di Paul e dei Fremen, e di cui vorremmo sapere di più. 

L'ultima saga a riuscire a rendere in modo paragonabile la profondità del mondo romanzesco era stata quella de Il Signore degli Anelli, ma Peter Jackson aveva sempre preferito puntare più sul lato spettacolare e non soffermarsi troppo su quello tematico (che pur emergeva). Villeneuve invece riesce a mantenere un bilanciamento queste due anime, ed è una goduria cinematografica vedere questo esercizio di equilibrismo dipanarsi scena dopo scena.

Visivamente il film è abbacinante: riempie gli occhi di stupore, lascia continuamente a bocca aperta e, quando pensi di esserti ormai abituato a deserti immensi che paiono mari solcati dalle onde, tecnologie innovative che sembrano al tempo stesso vecchissime (non a caso Lucas ha saccheggiato a piene mani la creazione di Herbert per creare l'immaginario di Guerre Stellari), e immense creature che emergono dalle sabbie, ti colpisce ancora, e ancora, e ancora con immagini sempre più ambiziose, coraggiose, creative. Non citerò scene specifiche per evitare spoiler, ma ci sono almeno tre momenti (tra cui quello che apre il film) destinati a diventare iconici. 

La cifra visiva di Villeneuve è pienamente riconoscibile, tra duelli ripresi in silhouette, personaggi che si stagliano solitari di fronte all'infinito, e panoramiche che catturano la vastità di una natura di volta in volta meravigliosa, matrigna, o deturpata dall'intervento dell'uomo. A questo bagaglio dei trucchi si aggiunge qui un uso del colore espressionista e una tendenza spiccata a posizionare la camera a terra, inquadrando dal basso per rivelare, anzi, evocare qualcosa di grande e terribile che diventa a poco a poco visibile, creando un senso di attesa prima e di meraviglia poi nello spettatore.


Il film non potrebbe però raggiungere le vette che raggiunge senza l'aiuto di un cast semplicemente perfetto. Tra le vecchie conoscenze, Chalamet rende alla perfezione la crescita di Paul, passando dal ragazzino etereo e un po' imbronciato del primo film a leader di un popolo e di una guerra santa con una performance sfaccettata, in cui dimostra un carisma fisico e, soprattutto, vocale inaspettato che, unito alla sua capacità di dare voce e corpo alla fragilità, rende alla perfezione l'ambiguità morale in cui lentamente svicola Paul. Accanto a lui, Zendaya è l'occhio scettico, l'ancora che dovrebbe impedire a Paul di perdere il suo lato umano, l'unica a vederlo come Paul, come Muad'dib, e non come il Messia, la Voce da un Altro Mondo in cui le persone intorno a lui vogliono trasformarlo. Rebecca Ferguson è una Lady Jessica che ricorda una Lady Macbeth, incutendo terrore come una Reverenda Madre delle Bene Gesserit dovrebbe fare, e Stellan Skarsgard continua ad abitare i nostri incubi con il suo Barone Harkonnen.

Anche i nuovi arrivi brillano, a cominciare da Austin Butler, che regala un Feyd-Rautha imperioso, dalla voce oltremondana e dalle movenze serpentine, un sadico assassino con un codice d'onore, perfetto specchio deformato di ciò che diventa Paul - un aspetto, questo, resto in modo addirittura più efficace che nel romanzo, dove Feyd risultava meno profondo e più tipizzato come "malvagio", per quanto affascinante. Accanto a lui da segnalare anche Léa Seydoux, attrice dal range limitato che però Villeneuve sfrutta alla perfezione, ritagliandole addosso una Bene Gesserit felina, seduttiva, a suo agio nel muoversi tra luci e ombre. Florence Pugh e Christopher Walken, pur con un minutaggio limitato, danno spessore e gravitas ai rispettivi personaggi, e Pugh promette di portare sullo schermo una Irulan eccezionale se, come sperano sia Villeneuve che i fan, verrà realizzato un film anche dal secondo libro della saga, Dune Messiah.

Dune - Parte 2 è un sequel cupo, oscuro, in uno scarto tonale che ricorda Impero colpisce ancora ma se si fosse focalizzato maggiormente su Darth Vader. È un adattamento fedelissimo allo spirito e fedele alla lettera del libro, e al tempo stesso accessibile anche per chi non conosce il lavoro di Herbert. È, in sintesi, tutto ciò che dovrebbe essere un blockbuster d'autore: intrattiene con battaglie, intrighi, creature mitologiche e personaggi memorabili, ma al tempo stesso stupisce, colpisce e fa riflettere, prendendosi i suoi tempi e lasciando lo spettatore a interrogarsi su cosa ha visto e con il desiderio di rivedere il film per scoprire dettagli, suggestioni, interpretazioni. Destinato a diventare una pietra miliare del genere: come per la trilogia de Il Signore degli Anelli e Mad Max: Fury Road, ci sarà un "prima" e un "dopo" Dune.

*****

Pier

giovedì 25 gennaio 2024

Povere Creature!

La forza del desiderio


Godwin Baxter, scienziato dal passato tormentato, svolge esperimenti bizzarri su animali ed esseri umani. Quello che più lo appassiona è Bella, giovane donna di cui ha recuperato il cadavere dal fiume e che ha riportato in vita, ma con la mente di un bambino. Bella sviluppa rapidamente facoltà fisiche e mentali, finendo per ribellarsi alle regole impostele e al suo creatore.

Dopo La favorita, Lanthimos torna a parlare di potere e femminile e lo fa con una fantasia gotica e distopica, un divertissement vittoriano con spruzzate di steampunk che rielabora la storia di Frankenstein per mettere a nudo le radici invisibili e interiorizzate del potere maschile e, più in generale, di tutte quelle norme, convenzioni, sovrastrutture che impediscono l'affermazione individuale, e femminile in particolare *. 

Bella è come un tirannosauro sguinzagliato in un recinto di capre, dove le capre sono le convenzioni: convenzioni che lei non conosce, perché non le ha interiorizzate per anni da altre persone che le avevano interiorizzate, e che per lei non significano nulla. Ha l'approccio alla realtà di un bambino, e quindi mette tutto in discussione, accompagnata però da un corpo di donna che le permette quindi di fare e scoprire cose che a un bambino sarebbero impossibili. La scoperta - e conseguente emancipazione - sessuale di Bella è solo la punta dell'iceberg, perché la sua mente tutta da plasmare mette in discussione la sua dipendenza da tutti gli uomini della sua vita, dal padre-creatore Godwin, che spoglia della sua aura divina abbandonandolo, al suo primo amore Duncan, passando per tutti coloro che cercano di limitare la sua folle, geniale, incontenibile energia. 

Bella travolge tutto ciò che si frappone tra lei e la scoperta. La sua è una storia di liberazione femminile, certo, ma è prima di tutto un racconto di sviluppo psicologico, un inno all'umana capacità di scoprire e riscoprire, a quella fanciullesca volontà di conoscere e sapere che viene via via cancellata da rigidi dogmi sociali (non a caso l'ambientazione è vittoriana) e da ciò che ci impone la "vita adulta." 

Non è un caso che a portare avanti questo tour de force di riscoperta e affermazione del Sè sia una figura marginalizzata dal suo contesto sociale, dato che sappiamo da anni che spesso è da lì che arriva l'innovazione - da chi, vivendo ai margini della società, riesce a vedere chiaramente le sbarre invisibili create da convenzioni antiquate, dogmi, inibizioni, paure. Povere creature! è, in sintesi, un inno al libero arbitrio ma, soprattutto, al desiderio - un desiderio sia intellettuale che fisico - e alla sua forza nell'abbattere le barriere che ci costringono.


Tony McNamara firma una sceneggiatura da manuale a partire dal romanzo di Alasdair Gray, mescolando alla perfezione risate (si ride tantissimo) e riflessione, facendo passare un messaggio chiaro, potente, non annacquato dalla necessità di essere mainstream, che però non scivola mai nella predica o nel comizio e non solo non annoia, ma intrattiene ferocemente. 

La fotografia ci mostra, come già ne La favorita, una realtà distorta, deformata, con frequenti usi dell'occhio di pesce e suggesioni pittoriche, applicate però qui a una scenografia e a un'estetica che strizzano l'occhio a Tim Burton (le creature di Godwin potrebbero essere uscite da Frankenweenie o Nightmare Before Christmas) e Wes Anderson (i colori e l'amore per tecnologie superbamente complesse e ancor più superbamente inutili), ma li rielaborano in modo originale, creativo, vivo. Il film alterna sapientemente sequenze oniriche e reali, creando un mondo folle e fantastico in cui i confini tra le due dimensioni, spesso, finiscono per confondersi.

Al centro di tutto c'è la prova superba di Emma Stone nel ruolo di una novella creatura di Frankenstein che cerca, anzi, si prende un'emancipazione sociale e sessuale. Vederla camminare, muoversi, parlare mentre dà vita a una donna-bambina che sta imparando il funzionamento di un corpo già adulto è un'esperienza indimenticabile, che culmina nella travolgente, anacronistica danza cui Lanthimos, ancora una volta, affida un momento chiave del suo film. Accanto a lei brillano tutti i comprimari, da un Dafoe novello dottor Frankenstein, impotente nel controllare il suo atto creativo, a un Mark Ruffalo splendidamente gigione, passando per il remissivo Ramy Youssef e il piccolo ma splendido (e narrativamente ricco) ruolo di Margaret Qualley.

Povere Creature! racconta una donna, una persona che ri-scopre da zero le convenzioni sociali, il suo ruolo nel mondo, ma soprattutto se stessa, la sua psicologia, i suoi desideri, in un mix tra horror, commedia, satira e fantastico che unisce idealmente la poetica del primo Lanthimos (The lobster, Alps, Il Sacrificio del cervo sacro) con La favorita. È film travolgente per la creatività delle sue invenzioni visive e verbali, impeccabile per esecuzione, sviluppo e interpretazioni: in una parola, è un film imperdibile.

*****

Pier

*: O, in altre parole,  del (gasp!, come direbbero nei fumetti) patriarcato. Scelgo di non usare questa parola perché è ormai talmente deformata dall'uso che ne fanno i media da essere divenuta quasi parodica (con gran gioia dei suddetti media - d'altronde convincere gli altri della tua non-esistenza è il miglior trucco del diavolo, come spiegano ne I soliti sospetti).

venerdì 19 gennaio 2024

Saltburn

Sangue e sperma


Oliver Quick viene ammesso all'università di Oxford con una borsa di studio, ma le sue umili origini sembrano precludergli la compagnia degli altri studenti, tutti provenienti da famiglie molto ricche. Un giorno Oliver, per un colpo di fortuna, riesce a entrare nelle grazie di Felix Catton, il ragazzo più popolare dell'università. Questi, all'arrivo della pausa estiva, lo invita a trascorrere l'estate con lui e la sua eccentrica famiglia a Saltburn, la sua enorme tenuta. 

Che cos'è la lotta di classe? Parafrasando la celebre definizione della politica data da un politico italiano, si potrebbe dire che, per Emerald Fennell, è "sangue e sperma": un rapporto fatto di conflitto e attrazione, repulsione e irresistibile fascinazione per chi è diverso da noi, oggetto del desiderio o curiosa anomalia in grado di spezzare la monotonia della vita dei ricchi. Sensualità e violenza attraversano tutto il film, nascondendosi e poi riemergendo come fiumi carsici e dominandone le due metà. 

Su questi elementi, in continua contraddizione e, al tempo stesso, mutualmente costitutivi, Fennell costruisce un'ascesa in società che è anche una calata negli inferi dell'animo umano, un film conturbante e disturbante che seduce e repelle i sensi. Linus Sandgren, direttore della fotografia fedelissimo di Damien Chazelle, anche qui dà vita a immagini indimenticabili: pittoriche, scultoree, simboliche, o semplicemente bellissime, le inquadrature di Saltburn sono spesso un'opera d'arte. Barry Keoghan è l'anima del film, la chiave di volta senza il quale tutta la costruzione crollerebbe: il suo Oliver è magnetico, enigmatico, un Giano bifronte che sfugge a ogni classificazione, mercuriale e in continua mutazione. Accanto a lui, Jacob Elordi si trasforma in una divinità greca fatta di carne e marmo, trasfigurata in ogni inquadratura fino a trasformarsi in un letterale angelo durante una festa dai toni lisergici. Se l'occhio di Sandgren esalta Elordi, il suo apice lo raggiunge nello splendido finale, in cui Oliver abbandona ogni elemento apollineo per diventare un satiro dionisiaco che danza frenetico sulle spoglie conquistate - una scena memorabile, vibrante, liberatoria.

Se il film parla efficacemente agli occhi e alla pancia, tuttavia, non altrettanto si può dire della sua capacità di veicolare un messaggio e una storia efficaci e coerenti. Saltburn vorrebbe essere anche una satira sociale, in grado di mettere alla berlina la vacuità e brutalità delle differenze di classe e di un intero sistema di potere, esattamente come fatto nel suo ottimo (e migliore, in generale e da questo punto di vista in particolare) esordio, Una donna promettente. Il proposito, tuttavia, naufraga perché Fennell non riesce a criticare davvero il mondo upper class britannico cui lei stessa appartiene: Felix e i suoi parenti risultano tutt'al più eccentrici, mai davvero negativi, e alcuni di loro - Felix in testa - hanno nettamente più pregi che difetti. Il risultato è che Oliver, da working class hero, diventa un working class villain, buttando alle ortiche il messaggio che la regista vorrebbe veicolare. La carica politica di Teorema, cui alcuni hanno (comprensibilmente ma, a conti fatti, impropriamente) paragonato il film, è del tutto assente.

Non è, purtroppo, l'unico problema narrativo: il colpo di scena che divide nettamente in due il film può essere tale solo per chi non abbia mai letto o visto Il talento di Mr. Ripley. Inoltre, il colpo di scena stesso viene depotenziato da un finale che, oltre a sottovalutare le sinapsi dello spettatore nella sua ansia di spiegare (peraltro in modo poco convincente) quanto accaduto, rende del tutto incoerente il rapporto tra Oliver e Felix e, soprattutto, le motivazioni di Oliver.

Saltburn è quindi visivamente bellissimo, con tanti spunti interessanti, ma poca sostanza sotto una magnifica apparenza. Fennell asta l'asticella rispetto al primo film, ma questa maggiore ambizione si concretizza solo nel comparto visivo, mentre la forza e l'urgenza di Una donna promettente risultano del tutto assenti su quello narrativo. 

È un film che appaga i sensi ma solo in parte la mente, e che fa discutere più per le emozioni e sensazioni che suscita che per quel che racconta, nonostante abbia l'ambizione di raccontare tanto e veicolare messaggi importanti. In Saltburn, alla fine, lo sperma prevale sul sangue: e se, sul momento, il film risulta comunque potente, il suo impatto svanisce rapidamente, svicolando stanco come l'acqua nello scarico di una vasca da bagno.

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Pier

PS: in futuro qualcuno ci spiegherà perché un film visivamente così magnifico non sia stato distribuito in sala - Italia caso unico o quasi - ma direttamente su Prime Video.

lunedì 15 gennaio 2024

Enea

Raccontare il vuoto


Enea e Valentino sono due ragazzi figli di famiglie della Roma salottiera e borghese. I due diventano spacciatori di cocaina quasi per gioco, senza rendersi conto né interessarsi troppo delle implicazioni e delle conseguenze di ciò che fanno.

Dopo il buon esordio di Predatori, Pietro Castellitto torna dietro la macchina da presa con una storia dalla tematica simile – il disagio generazionale di una specifica classe sociale – ma dalle ambizioni più elevate, sia a livello narrativo che a livello visivo.

Enea racconta i figli della Roma bene della sua età, dipinti come una generazione vuota, anzi, svuotata. L’unico valore che sia stato loro impartito è quello del denaro, della chiacchiera fine a se stessa, che non ha davvero nulla da dire (emblematica, in tal senso, la madre di Valentino). Le loro sono famiglie che pensano solo a perpetrare se stesse come collettivo, soffocando ogni individualità, ogni aspirazione. Titillano i figli con la prospettiva di mille opportunità che non si concretizzeranno mai e, anzi, spesso contribuiscono attivamente a non far concretizzare.

Castellitto guarda a un mondo che è innegabilmente il suo, ma non lo fa con simpatia o quantomeno empatia come viene sempre fatto in Italia dai cosiddetti “drammi borghesi”, ma con cattiveria, quasi con odio. Lo sguardo registico non ha alcuna pietà dei suoi personaggi, a partire dai due protagonisti, di cui mette pienamente a nudo l’insopportabile arroganza, lo scarso senso della realtà (“tu sei nato ricco”, dice a un certo punto il padre di Enea, riassumendo alla perfezione il problema), la totale mancanza di senso di responsabilità.

Quando qualcosa cambia, è troppo tardi, e resta solo da scegliere se trovare una via di fuga onorevole (o presunta tale, ma mi fermo qui per evitare spoiler) o semplicemente ignorare ciò che si è fatto, sperando che si risolva da solo perché è quello che la mia condizione sociale mi ha abituato a fare. Il finale è la sublimazione di questo atteggiamento, un finale potente in cui sullo sfondo c’è la morte e in primo piano la vita che continua e che addirittura vola verso l’alto, i protagonisti prigionieri (in)consapevoli di una favola che continuano a raccontare a se stessi. Ciò che sembra poetico è, infatti, l’ultima stoccata di Castellitto, la critica di un’illusione, di un’autonarrazione destinata a infrangersi di fronte alla cruda realtà.

Castellitto e Giorgio Quarzo Guarascio (il rapper Tutti Fenomeni) rendono alla perfezione il vuoto interiore di Enea e la strisciante depressione di Valentino. Enea è un guscio, incapace di capire le emozioni delle persone intorno a lui, e persino i suoi tentativi di redenzione, come aiutare il fratello adolescente o trovare l’amore, sono goffi, innaturali, e posticci, e destinati al fallimento. Castellitto lo interpreta di conseguenza, con un’espressione vacua sul volto, una maschera incapace di emozioni. Il suo fallimento è sublimato in una splendida scena muta con Valentino, in cui il rapporto tra i due viene squadernato con dolente dolcezza.

A livello visivo Castellitto esce dagli ambienti chiusi di Predatori e si tuffa in una Roma a volte lirica, a volte squallida, a volte solare, a volte crepuscolare, dove alla bellezza esteriore corrisponde una bruttezza interiore, e viceversa. Le scene più ricche di dignità si svolgono in case di riposo o vecchie automobili, illuminate in luce naturale, senza fronzoli; quelle più marce si svolgono in discoteche monumentali dalle luci sulfuree, che sembrano uscite da Apocalypse Now, e in splendidi circoli privati inondati di sole.

Castellitto, dunque, alza il tiro, realizzando un film complesso, sfaccettato, con tanti livelli di lettura e continui cambi di direzione. Spesso il film gli scappa di mano, alcuni dialoghi sono un po’ troppo retorici, e in generale non tutti i momenti sono riusciti. Resta, tuttavia, una visione originale, unica, che fa sì che il film nel complesso funzioni, e che alcuni dialoghi e immagini rimangano impressi nella memoria. In un cinema che ha fatto del compitino uno stile di vita, è bello vedere qualcuno che punta in alto, anche a costo di inciampare e fallire, nel tentativo di dire qualcosa di nuovo, o quantomeno di dirlo in modo diverso.

*** 1/2

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.